domenica 26 febbraio 2012

La discarica di Motta dagli occhi di Nino Di Guardo

"Sindaco per passione", un titolo come tanti altri, pensavo. L'autore è Nino di Guardo, primo cittadino di Misterbianco tra il 1988-89 e il 1993-2002. Uno dei tanti libri non letti che giacevano tra gli scaffali in casa di mia nonna. Lo guardavo con sufficienza, come sono solito fare con tutto ciò che non conosco. Poi la curiosità; lo sfoglio al contrario; scorro le immagini ed alla fine decido di leggerlo. Boom! Una botta. Un testo che non ti aspetti scorre veloce sotto gli occhi e Misterbianco improvvisamente diventa vicinissimo, più di quanto lo sia in realtà.
In prima battuta penso che il testo sia interessante e scritto in maniera chiara: lo ammetto, non sono due qualità che riconosco ai politici. Ma poi mi accorgo che c'è molto di più, informazioni dettagliate e accurate, quel tipo di informazioni che nessuno si sognerebbe di dire, figuriamoci di scrivere. E così, in un intero capitolo si susseguono i nomi e i cognomi che formano la geografia politico-mafiosa che gravita attorno la discarica di contrada Tiritì. Di Guardo parla dei "potenti", dei politici, delle minacce, della vita sotto scorta e tanto altro ancora. Una Gomorra nostrana, vicinissima e terribilmente familiare, anche nel suono dei nomi.
Il libro è stato pubblicato nel 2006, ma il capitolo che pubblico di seguito traccia una dettagliata cronostoria delle vicende che riguardano la discarica sin dai primi anni di attività.
Io vi consiglio caldamente di ritagliarvi 5 minuti: se qualcuno ha rischiato la propria vita per scrivere un pezzo della nostra storia, il minimo che possiamo fare è leggerlo.
A CUNTRASTARI PRINCIPI E PUTENTI…
Si chiama Tiritì, ma non è innocua come il saltellante nome potrebbe far pensare. È la gigantesca discarica posta a soli cinquecento metri dall’abitato di Misterbianco, di proprietà della famiglia Proto. Sequestrata nel ‘98 dall’Autorità Giudiziaria, perché i titolari erano finiti sotto inchiesta per associazione mafiosa, fu gestita, fino alla primavera del 2005, da un amministratore nominato dal Tribunale. Successivamente, l’impianto ritornò nelle mani dei proprietari, nel frattempo scagionati dalla pesante accusa.
La discarica, alla fine degli anni Settanta, cominciò a ricevere i primi rifiuti e, in pochi anni, decine e decine di comuni finirono per scaricarvi la propria immondizia.
Nel ’92 era stata chiusa a causa dei suoi fetidi miasmi. Per ottenere quel provvedimento avevamo protestato in tanti: la società civile, alcuni esponenti politici e anche il parroco Condorelli.
Nel ’97, con un provvedimento provvisorio, l’assessorato regionale al territorio le consentì di riaprire. Ma le cose provvisorie, come si sa, tendono a diventare definitive e così, ancora oggi, quell’impianto è in piena attività e continua, specie in estate, ad ammorbare il paese.


Nel ’99, il decreto sull’emergenza rifiuti assegnò ai prefetti le competenze in materia ambientale.
Il prefetto di Catania, dott. Tommaso Blonda, appena nominato commissario, diede segnali di entusiastico dinamismo, dichiarando che la discarica privata di Tiritì, poiché priva dei requisiti previsti dalla legge, sarebbe stata chiusa a breve e che avrebbe funzionato ancora per pochi mesi, solo per fronteggiare l’emergenza. Nel frattempo si sarebbe realizzata una nuova discarica, la cui gestione sarebbe stata affidata a soggetti pubblici, come prescritto dallo stesso decreto.
Si tenne in prefettura una serie d’incontri con altri sindaci della provincia. Si coglieva nell’aria la sensazione di una svolta finalmente radicale e positiva.
I tempi, per la discarica del comprensorio Nord-Ovest, di cui faceva parte Misterbianco, erano tassativi: sessanta giorni per la stesura del progetto; alcuni mesi per la sua realizzazione. Lo stesso prefetto incitava gli uffici interessati a “galoppare”, per aprire una nuova pagina di legalità e di efficienza nella gestione dei rifiuti.
Nell’autunno di quell’anno, fui convocato, insieme al sindaco di Motta Sant’Anastasia, Angelo Giuffrida, in prefettura. Il prefetto c’illustrò il suo progetto.
“Come prevede la legge, dopo il 31 dicembre non concederò più la gestione delle discariche ai privati. C’è bisogno di un soggetto pubblico, di una società a capitale pubblico. Se i vostri comuni,” ci disse, “insieme ad altri del circondario, dessero vita a un soggetto giuridico di tal fatta, ad esso affiderei la gestione della nuova discarica, e provvisoriamente, fino a quando questa non verrà realizzata, quella di Tiritì. Ma bisogna fare in fretta. Tutto dipende da voi.”
Ci salutammo dichiarando i nostri buoni propositi.
Chiamai la mia esperta, avv. Angela Vecchio, e le assegnai il compito di lavorare per mettere su, in breve tempo, una società pubblica.
Angela, con il suo solito impegno, si buttò a capofitto. Indisse incontri e riunioni con i sindaci dei comuni vicini. Ben otto comuni aderirono all’iniziativa e, a metà dicembre, fu costituita la società denominata “Etnambiente”. Misterbianco divenne il comune capofila con il 70% del capitale sociale. Il resto fu sottoscritto dai comuni di Biancavilla, Camporotondo, San Pietro Clarenza, Riposto, S. Maria di Licodia, Valverde, Zafferana. Motta Sant’Anastasia, all’ultimo momento, decise stranamente di non aderire.
Consegnammo subito l’atto costitutivo della nuova società al prefetto. Questi si mostrò sorpreso della nostra tempestività e, stranamente, ci apparve meno entusiasta rispetto ai precedenti incontri. Incominciò a chiedere tempo. Disse che bisognava consultare i tecnici e i giuristi, prima di negare la gestione della discarica al privato e affidarla alla nuova società Etnambiente. Accampò altri mille pretesti e, alla fine, chissà per quali misteriose ragioni, non se ne fece più nulla.
Intervennero minacce? Pressioni politiche? Altro ancora? Chi può dirlo? Nuddu sapi i vai dâ pignata su non sulu a cucchiara ca i rrimina! Fatto è che tutto si arenò placidamente.

Non solo, ma avendo lo stesso prefetto disposto la chiusura delle discariche provvisorie che i vari comuni avevano nel tempo realizzato, quello di Tiritì rimase, di fatto, l’unico impianto funzionante al servizio di buona parte dei comuni delle province di Catania e di Messina. Più di mille tonnellate di rifiuti, ogni giorno, convogliavano indisturbati a Tiritì che divenne meta di colonne interminabili di camion stracolmi di spazzatura e di miliardi per le tasche dei gestori.
Di realizzare la nuova discarica non si parlò più, quasi che fosse bastata l’individuazione del sito per risolvere il problema. Le belle dichiarazioni d’intenti del prefetto svanirono nel nulla. Cessarono gli incontri organizzativi in prefettura. Il “galoppo” si trasformò ben presto in una risoluta e sorda immobilità. Tutto tornò nel molle ventre del dimenticatoio e il provvisorio divenne, come al solito, definitivo.

Con il sopraggiungere dell’estate, l’acre e pungente fetore della discarica tornò a fare capolino. Inviai numerose lettere al prefetto e al commissario regionale per i rifiuti, per allertarli sulla grave situazione ambientale. Ma nulla accadde. Proposi al consiglio comunale di approvare un ordine del giorno di protesta, ma esso, inopinatamente, rinviò la discussione. Continuai la battaglia, tappezzando l’intera città di manifesti con i quali chiedevo la chiusura immediata di Tiritì e denunciando alla stampa gli ingiustificati ritardi del prefetto.
Il 5 novembre del 2000 la discarica “scoppiò”. Venne giù un pezzo di montagna, fatta non di terra e rocce, ma di rifiuti e fetore, un pezzo di quell’immondezzaio che, da anni, custodiva i segreti scarti di una bella fetta di Sicilia orientale. L’accumulo di biogas aveva provocato una sorda esplosione e quella gigantesca frana.
Misterbianco e Motta Sant’Anastasia vennero investiti, per una settimana, da miasmi insopportabili che costrinsero i cittadini a rimanere chiusi in casa.
Immediatamente, telegrafai al ministro dell’Ambiente, Bordon, a quello dell’Interno, Bianco, e al presidente della Regione, Leanza, invocando la dichiarazione dello stato d’emergenza ambientale.
Seguì una serie di riunioni a Palermo con il sub commissario all’emergenza rifiuti, dott. Nicola Scialabba, e con i prefetti di Catania e di Messina. Mi battei affinché almeno i rifiuti del messinese non venissero più conferiti a Tiritì. Alla fine, quella richiesta venne accolta. Ma la vecchia discarica, in attesa della nuova, doveva continuare a rimanere aperta per i comuni del catanese.
Sotto la spinta di quella grave emergenza e dietro la mia insistenza, il 17 febbraio del 2001, il prefetto di Catania, dott. Di Pace, nel frattempo subentrato a Blonda, firmava finalmente l’autorizzazione alla realizzazione della nuova discarica, sempre in territorio di Motta Sant’Anastasia, ma più a sud e più lontana dai centri abitati.
I mesi, però, passavano invano e nulla si muoveva. Il previsto finanziamento, da parte della regione, inspiegabilmente non veniva decretato. Era evidente che forti interessi e importanti pressioni politiche erano intervenuti per impedire che la nuova discarica venisse realizzata. Solo così, quella vecchia poteva continuare, sempre “provvisoriamente” s’intende, a lavorare.

Il 13 maggio del 2001 si erano tenute le elezioni politiche e, proprio nel collegio senatoriale che comprendeva anche Misterbianco, veniva eletto Domenico Sudano, a favore del quale i gestori della discarica si erano fortemente impegnati, nel corso della campagna elettorale. E, nelle sue sempre più frequenti apparizioni in paese, il senatore soleva farsi accompagnare da un certo Vincenzo Coppola, direttore della discarica di Tiritì, dal pedigree penale intenso e colorito.
In occasione dei festeggiamenti in onore di S. Antonio Abate, accadde un fatto imprevisto di cui fui involontario protagonista. La festa del Patrono si svolge ogni tre anni in piena estate e si protrae per diversi giorni. Il lunedì, giornata conclusiva, si celebra, in Cattedrale, la messa Pontificale alla presenza delle autorità civili e militari; è quello uno dei momenti più significativi dei festeggiamenti.
Alle dieci e trenta tutto era pronto per la cerimonia solenne. La chiesa era gremita. Entrai accompagnato dalla giunta al gran completo, dal presidente del consiglio, dai consiglieri provin ciali e da alcuni consiglieri comunali.
Come da protocollo, indossando la vistosa fascia tricolore, offrivo in dono al Santo Patrono un cesto di turgide rose rosse, retto da due vigili urbani in alta uniforme che mi precedevano con incedere solenne. Accompagnai il cesto fino ai piedi dell’altare. Mi girai e mi avviai verso il settore riservato alle autorità. Ma, con stupore, notai che, in prima fila, accanto al senatore Sudano, si erano seduti il direttore della discarica, Vincenzo Coppola e Domenico Proto, figlio del titolare della stessa. Mi sentii trasecolare. Quei due personaggi occupavano quei posti sfacciatamente, come se fossero autorità. Un brivido di indignazione mi assalì. Che messaggio si dava alla città? I titolari della discarica erano divenuti, d’un colpo, i rappresentanti di Misterbianco? Il senatore aveva esagerato. Misterbianco non era casa sua!
Non esitai un momento. “Questi posti sono riservati alle autorità,” dissi risoluto agli organizzatori dei festeggiamenti, “invitate coloro che non ne fanno parte ad accomodarsi altrove, altrimenti sarò io ad abbandonare la cerimonia.”
Seguì un momento di panico. Il senatore rimase immobile come una pietra. Qualcuno si avvicinò ai due che, imbarazzati, si allontanarono.
Il fatto non passò inosservato. In un baleno, fra un bisbiglio e l’altro, la notizia di quell’episodio raggiunse le ultime file in fondo alla chiesa e, ancor prima che si concludesse la funzione religiosa, aveva già fatto il giro del paese.
La sera partecipai con mia moglie alle tradizionali “cantate” in piazza della Repubblica, l’antico “salotto” del paese.
La piazza, interamente restaurata a partire dalla pavimentazione in pietra lavica e dall’illuminazione artistica fino al rifacimento delle facciate dei quattro storici palazzi che la racchiudono, era stracolma di cittadini che, rinnovando la secolare tradizione, intonavano, in onore del Patrono, gli inni dei quattro quartieri.
Dopo la mezzanotte, conclusisi i festeggiamenti, ci avviammo verso casa. Prima di arrivare, avvertimmo un forte odore di benzina. Ci avvicinammo all’uscio con circospezione. Accostata al portone, mia moglie notò una grossa bottiglia di plastica piena di benzina, malamente avvolta in un giornale. “Volevano incendiare la casa,” esclamò tremante. Istintivamente, ci allontanammo di qualche metro. Presi il telefonino e chiamai i carabinieri. In pochi secondi, giunse una volante.
Il maresciallo Todaro, trafelato in volto, prese in consegna quell’involucro e, nell’intento di rassicurare mia moglie, ci disse: “Andate a letto, non è successo nulla di grave. Penseremo noi a presidiare il quartiere per tutta la notte.” M’invitò ad aprire la porta e ci accompagnò per le scale. Poi mi sussurrò, sottovoce: “Quest’atto ha tutta l’aria di un avvertimento, di un messaggio mafioso. Rassereni sua moglie. Domani, con calma, approfondiremo ogni cosa.”
Attendemmo con ansia che rincasassero i nostri ragazzi. È nostra abitudine farli partecipi di ciò che accade intorno a noi.
Da anni, ormai, dai tempi della scorta, non avevo più subito minacce o intimidazioni. Non mi fu facile prendere sonno. Il pensiero di esporre nuovamente la mia famiglia a così gravi rischi mi turbava profondamente e mi faceva sentire in colpa.
L’indomani, sia i giornali sia le emittenti televisive, riportarono la notizia.
Mi giunse immediata la solidarietà di tanti esponenti politici e sindacali. Si tenne una calda manifestazione alla quale parteciparono centinaia di cittadini e molti sindaci. Furono davvero tanti gli attestati di affettuoso incoraggiamento che ricevetti in quei giorni.
Ai giornalisti che mi chiedevano da dove potesse provenire quell’intimidazione, risposi: “Prove non ne ho, ma certamente la lotta che la mia amministrazione ha portato e porta avanti contro la piaga del racket e quella, altrettanto decisa, per la chiusura della discarica di Tiritì, sono le direzioni in cui guardare.”
Il prefetto mi invitò ad una riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza. Si discusse a lungo di malavita, di racket e anche di quanto era accaduto in Cattedrale, quel lunedì della festa.
Il questore espresse il suo punto di vista: “È questione di carattere. Io, in quella Chiesa, se fossi stato in lei, avrei evitato di compiere un gesto così eclatante e mi sarei accomodato qualche fila più indietro.”
“No! Ero lì in veste ufficiale e non potevo far finta di nulla. Certi comportamenti non si possono tollerare, pena la perdita della propria credibilità. E se un sindaco perde la faccia, non può rappresentare degnamente la comunità e deve andare subito a casa!” gli risposi seccamente.
Uscii deluso da quella riunione. Mi aspettavo una parola di sostegno e di incoraggiamento dai massimi esponenti delle forze dell’ordine provinciali e, invece, mi giungeva un deprimente messaggio di fatalismo e di rassegnazione, un velato invito a smorzare i toni, a lasciar correre. Un messaggio che anticipava, di qualche mese, il pensiero del ministro Lunardi secondo cui bisogna abituarsi a convivere con la prepotenza e la mafia. Ma più di tutto mi sbalordirono le parole del questore. Questi, pur provenendo da un’altra parte d’Italia, aveva ben assimilato, nella sua breve permanenza in Sicilia, l’antico omertoso insegnamento: “Cu picca parràu, mai si pintìu e u fuiri è virgogna ma è sarvamentu î vita.”

Nella battaglia per sollecitare la realizzazione della nuova discarica mi ritrovai sempre più solo. Lo stesso consiglio comunale avanzava perplessità sul nuovo sito. Sembrava non capire che contrastare la realizzazione della nuova discarica, di fatto, significava tenere in vita quella vecchia, fuorilegge e pericolosa, perpetuando la minaccia ecologica per il nostro territorio.
Fu una battaglia disperata. Ogni mia richiesta s’infrangeva contro il muro di gomma della prefettura. Esasperato, a fine anno, mi rivolsi, con una pungente lettera, al ministro dell’Interno e al presidente della Regione.
Finalmente, nel mese di aprile del 2002, giunse la notizia del finanziamento di dodici miliardi e mezzo di lire per la realizzazione della nuova discarica. Il prefetto, ora, poteva bandire la gara d’appalto. Non avrebbe avuto più alibi.
Ma, nel frattempo, la mia sindacatura era giunta al termine. Si insediò al comune la nuova amministrazione che aveva vinto le elezioni grazie anche all’aperto sostegno elettorale dei titolari della discarica e dei loro referenti politici. Nessuno più parlò di realizzare la nuova discarica né di chiudere la vecchia.
Giunse l’estate e con essa, puntualmente, l’intenso fetore del biogas tornò ad invadere il paese. Questa volta, però, nessuna protesta si levò. Le narici della sindaca erano rimaste otturate dagli interessi dei titolari della discarica, suoi grandi elettori.

Sembra incredibile, ma ancora oggi, in questa fredda e piovosa primavera del 2005, mentre riassumo questi frammentari ricordi, Tiritì continua “provvisoriamente” a divorare immondizia, nell’infinita attesa che la nuova discarica veda la luce.
È amaro constatare che a cuntrastari principi e putenti, ti tagghi i çianchi e non cunchiudi nenti.
Proprio in questi giorni mi è stata notificata una querela, a firma del senatore Sudano e dei suoi amici della discarica, con la quale chiedono conto delle dichiarazioni che ho reso alla stampa a seguito dell’episodio della benzina cosparsa davanti alla mia abitazione.
Che Iddio me la mandi buona! Con i tempi che corrono può succedere di tutto, perfino che un feroce lupo si trasformi in un candido agnello.

Post Scriptum. Appena in tempo per essere inserita a piè di questo capitolo, è apparsa sul giornale “La Sicilia” del 27/7/2005, a pag. 35, una notizia che da conto dell’esito finale della vicenda sopra raccontata, illuminandola di nuova luce. “
Il Commissaro delegato per l’emergenza rifiuti in Sicilia, su proposta del Prefetto di Catania, con propria ordinanza, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Regione Sicilia del 24/6/2005, fissa la tariffa per il conferimento dei rifiuti solidi urbani nella discarica privata di Tiritì, in e 57,26 a tonnellata.”
L’articolo riferisce poi che la discarica, per i prossimi dieci anni, può continuare ad accogliere i rifiuti provenienti dai ventidue comuni autorizzati che ne conferiranno, ogni giorno, circa quattrocento tonnellate (un fatturato annuo di circa otto milioni di euro!) e che “… la nuova discarica pubblica prefettizia e comprensoriale è stata definitivamente accantonata stante ad una comunicazione del Prefetto ai comuni interessati, in quanto sarebbe venuto meno il motivo della somma urgenza per la sua realizzazione in sostituzione di quella di Tiritì, risultata idonea alla bisogna.”
Dunque, il grande miracolo si è compiuto! La nuova discarica finanziata, dopo tante battaglie, nell’aprile 2002 per dodici miliardi e mezzo di lire, non è più necessaria. Quella privata di Tiritì, più volte dichiarata illegittima e pericolosa da vari prefetti ed esperti del settore, oggi miracolosamente non è più tale e, quindi, può continuare a lavorare indisturbata malgrado la sua attività abbia minacciato e continui a minacciare concretamente la salubrità della città di Misterbianco.
Chi ringraziare per questo straordinario prologo?
L’attuale amministrazione comunale, per la sconcertante indifferenza e l’assordante silenzio (per non dire altro) dimostrati?
Il commissario delegato per l’emergenza rifiuti in Sicilia, on. Totò Cuffaro, presidente della Regione, e di recente eletto vicesegretario nazionale dell’UDC?
Il Sen. Domenico Sudano, antico amico dei gestori della discarica di Tiritì, segretario politico dell’UDC in Sicilia?
Il Prefetto di Catania, dott.ssa Anna Maria Cancellieri, succeduta al suo collega, dott. Di Pace?
Chi può dirlo?
È certo comunque che “prodigi” di tal fatta accadono ancora in Sicilia.
di Nino Di Guardo.

Bibliografia:
- Nino Di Guardo, SINDACO PER PASSIONE, L. Pellegrini Editore, senza luogo 2006.
Il testo può essere consultato in pdf direttamente online, alla pagina ninodiguardo.it
Le immagini pubblicate sono state tratte dal pdf.

3 commenti:

  1. Il libro di Nino, regalatomi dallo stesso, lo lessi prima d'iniziare la mia attività politica. E' per questo che quando parlo di discarica lo faccio sempre con una certa rabbia. Hai fatto bene a condividere queste significative pagine nel tuo blog.

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  2. E' un bene che girino questi libri, queste informazioni. E' un bene far sapere che, nonostante siano passati gli anni, i nomi in gioco sono rimasti sempre gli stessi(a parte Totò Cuffaro che adesso può essere chiamato mafioso, senza rischiare una querela), così come i problemi, la gestione politica, la gestione del territorio.
    Parli di rabbia. Anche io mi sono arrabbiato nel leggere il libro, ma inspiegabilmente ci ho trovato anche una consistente dose di speranza e fiducia nel prossimo. Speriamo che in futuro (maggio?) Misterbianco torni ad essere un baluardo della legalità, come merita di essere.

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  3. Danilo lo sappiamo che lo hai letto. L'incipit di un tuo articolo sul tema sembra molto (troppo) simile. Hai fatto bene a "ispirartene". E' molto bello. :-)

    Cmq, grande Ninuzzo, mi ricordo quando era sindaco, il paese lo ha cambiato. ESEMPIO !

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